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Con sempre maggior insistenza i
poveri del mondo bussano alla porta dei paesi ricchi,
alla nostra porta. Perché mai dovremmo preoccuparcene,
pensano in tanti, al di là del moto di compassione che
si prova vedendo in tv i campi dei rifugiati del Ruanda
o le case di latta e cartone delle periferie di Rio o di
Tijuana? Dopotutto, se uno va in cerca delle cause della
loro povertà, non può ignorare che molte di esse si
ritrovano all'interno dei loro stessi paesi. Classi
dirigenti incapaci quanto corrotte, a cui i poveri
interessano soltanto al fine di ottenere aiuti
dall'Occidente, che i primi non vedranno mai. Governi
che spendono in armamenti più che in istruzione, sanità
e lavori pubblici messi assieme. Precetti religiosi e
norme culturali che ostacolano l'accesso delle donne
all'istruzione e al lavoro - ricetta sicura per avere
alti tassi di povertà. Inoltre fanno troppi figli, nei
paesi poveri, con il risultato che l'aumento del
prodotto interno lordo, quando c'è, non riesce a tenere
dietro all' aumento della popolazione. Dovremmo certo
fornire aiuti ai poveri del mondo - ecco il punto più
alto cui perviene questa linea di ragionamento - ma
tocca in primo luogo ai paesi interessati cercare di
migliorare la situazione in casa propria. Su questo
versante non c'è molto da obiettare. Ma prima di
concludere, magari con un certo sollievo, che la
bilancia delle cause della povertà pende vistosamente da
una parte, quello del piatto in cui si mettono le cause
loro, proviamo a vedere cosa ci sarebbe da mettere
sull'altro piatto, quello delle responsabilità nostre.
Innanzitutto dovremmo metterci un bel pezzo di storia.
Nei paesi dell'America Latina, ad esempio, la povertà
odierna è l'estremo inferiore d'un sistema di fortissime
disuguaglianze sociali, quelle che separano coloro che
si costruiscono un rifugio di pochi metri quadrati entro
una discarica, da coloro che possiedono 10.000 ettari di
terreno o un loro equivalente. È un sistema che
caratterizza quei paesi da secoli. Ma è un sistema non
nato da una permanente insipienza politica dei
latinoamericani, bensì dall'aver sovrapposto con la
forza, dal '500 in poi, ceti e classi sociali originarie
dell'Europa alle popolazioni autoctone. Schiacciate al
fondo della piramide sociale dai nuovi arrivati, private
delle loro risorse naturali, povere perché poco
istruite, e poco istruite perché povere, i discendenti
di queste popolazioni sono diventati casi esemplari
della povertà che riproduce sé stessa. Se poi pare
incongruo, oltre che sgradevole, caricarci di
responsabilità che risalirebbero addirittura a secoli
addietro, abbiamo sempre la possibilità di contrarre il
nostro orizzonte storico, limitandoci a ricordare come
hanno agito, e con quali effetti, gli europei in Africa
tra il '700 e la prima metà del '900. È vero che
parecchi regimi africani del presente appaiono corrotti
quanto inefficienti, incapaci di modernizzare i loro
paesi e per tal via combattere almeno la povertà
assoluta dei loro abitanti - quelli che vivono con meno
di un dollaro al giorno. Resta il fatto che simili
regimi sono, per diversi aspetti, il prodotto finale
della solerzia posta dai colonizzatori europei nel
distruggere con ogni mezzo, per dominare il continente,
comunità locali, gruppi dirigenti, strutture sociali e
politiche preesistenti, nonché interi gruppi etnici.
Ancora nel Settecento, in molti stati africani non si
viveva peggio che in molte regioni europee, ed essi
avrebbero potuto percorrere una via autonoma di crescita
economica e sviluppo civile che avrebbe forse portato
l'Africa a condizioni migliori di quelle presenti. Ma
l'uomo bianco ritenne suo dovere caricarsi del fardello
di incivilire quel continente, cominciando, a mo' di
dimostrazione, con l'annichilire quegli Stati. Lasciando
dietro di sé, al momento della decolonizzazione - appena
cinquant'anni fa - strutture sociali in frantumi,
società attraversate da ogni sorta di odi, divisioni e
conflitti, istituzioni statali inesistenti o malandate;
e, con esse, qualche centinaio di milioni di poveri. Se
anche le gesta dei nostri nonni e trisavoli ci sembrano
troppo lontane per farci sentire in qualche misura
corresponsabili della povertà attuale del mondo, restano
comunque da mettere sul piatto delle responsabilità
nostre le azioni dei paesi ricchi che negli ultimi
decenni hanno concorso ad aumentare il numero dei
poveri. Tramite istituzioni da loro inventate e
sorrette, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale e altre, i paesi ricchi hanno imposto a
quelli più poveri di dotarsi di progetti di sviluppo di
grande respiro, e di aggiustare stabilmente i loro
bilanci pubblici, innanzitutto facendo sì che almeno si
capisse quali erano le entrate e quali le uscite.
Propositi meritori, sebbene risentano pur sempre
dell'idea di fardello dell'uomo bianco, ma che almeno
non sono stati affermati con la forza. Propositi che
però hanno finora avuto un rovescio, quello della
riduzione in condizioni di povertà abbietta -
l'aggettivo, si noti, è della Banca Mondiale - di vaste
popolazioni dell'America Latina, dell'Africa,
dell'India, di altri paesi del Sudest asiatico, degli
stati sorti dopo il '90 dalla dissoluzione dell'Urss. Le
severe richieste di aggiustamento strutturale del Fmi
hanno certo giovato a porre ordine nei bilanci di
diversi paesi in via di sviluppo. Ma poiché
richiedevano, tra l'altro, un drastico e immediato
ridimensionamento del settore pubblico, aziende
produttive e amministrazioni statali e locali incluse,
gli aggiustamenti strutturali hanno fatto sì che milioni
di persone si sian trovate da un giorno all'altro senza
lavoro. Nella sola Russia postsovietica, i dettami del
Fmi hanno generato in pochissimi anni decine di milioni
di nuovi poveri. Quanto ai progetti di sviluppo della
Banca Mondiale, di certo hanno accresciuto la
produttività dell'agricoltura in varie regioni, però al
prezzo di migliaia di comunità locali eliminate o
delocalizzate a forza; di innumerevoli colture
soppresse, e con esse delle popolazioni che le
praticavano; di blocco infine di ogni forma autonoma di
sviluppo locale. Altrettanti modi per produrre poveri,
dopodiché si può passare a proporre di "attaccare la
povertà" con programmi planetari - come fa la Banca
Mondiale con il suo fervoroso Rapporto 2000 che reca
appunto tale titolo. Il bello è che il ruolo delle
istituzioni internazionali nel produrre povertà a
livello mondiale, come mi è già capitato di rilevare in
Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza), è denunciato
in primo luogo dai loro exdirigenti, una volta che si
sono dimessi, sono stati licenziati, o hanno litigato
con i colleghi. Se si mettono sul piatto delle
responsabilità nostre anche solo una frazione degli
elementi ricordati, la bilancia pare decisamente pendere
da questa parte. Vi si può aggiungere qualche altra
inezia. Ad esempio, se noi accettassimo di pagare la
tazzina di caffè 1.800 lire invece che 1.500, e quelle
300 lire andassero effettivamente tutte ai contadini e
agli operai che il caffè coltivano e lavorano, in Africa
e in America Latina, il loro reddito giornaliero
aumenterebbe di due o tre volte. E se la Commissione
europea sopprimesse la norma, introdotta di recente, per
cui in una tavoletta di cioccolata vi può essere il 10%
di sostanze che non sono cacao, le migliaia di
coltivatori africani di cui quella norma ha decurtato i
redditi ritroverebbero forse per un momento il sorriso.
Azioni che di certo non si realizzeranno, ma che può
valere la pena di immaginare per ricordare che anche nei
più modesti piaceri del nostro benessere si nasconde un
po' della povertà del mondo. La seccatura che inizia a
profilarsi è che anche i poveri ora lo
sanno. |